“L’anno nuovo comincia con il disgelo e io respiro l’odore forte e bagnato del bosco. L’umidità ha gonfiato il tappeto di foglie cadute che copre il suolo e l’aria è soffusa di inebrianti aromi frondosi. Allontanandomi dal sentiero che si snoda lungo la discesa, mi inerpico attorno a un’enorme roccia erosa coperta di muschio. Attraverso un breve varco sul versante del monte, vedo il mio punto di riferimento: un lungo masso tondeggiante che sporge dalla lattiera come una balenottera. Questo blocco di arenaria definisce un lato del mandala. Mi occorrono pochi minuti per attraversare il ghiaione e raggiungere il mio masso. Passo accanto a un grande noce americano, appoggiando la mano sulle strisce di corteccia grigie, e il mandala è ai miei piedi. Faccio il giro, passo dalla parte opposta e mi siedo su una roccia piatta. Mi fermo, respiro l’aria intensa, mi metto in osservazione.”
Queste sono le prime righe del libro La foresta nascosta – Un anno a osservare la natura di David George Haskell, che in questo momento ho al mio fianco sul tavolo.
Per un anno intero lo scrittore, quasi ogni giorno, si è recato sul luogo prescelto e ha descritto quello che vedeva all’interno di un fazzoletto di terra dentro una foresta del Tennessee. È la stesura di osservazioni, sotto forma di brevi capitoli, a partire dagli accadimenti che vede: piccoli processi ecologici, passaggi di animali e insetti, l’alternarsi delle stagioni e il loro deposito.
È un po’ quello che stiamo facendo in queste settimane dentro le nostre case, muovendoci dentro stanze e osservando la collezione dei nostri oggetti e i titoli dei libri sugli scaffali delle librerie. Di alcuni proviamo a rileggerne alcune pagine, altri vengono rimessi al loro posto, magari dopo una spolverata con la finestra spalancata sul cortile: l’eco del suono delle copertine una contro l’altra rimbalza sui muri dei palazzi intorno. L’altro giorno ne ho presi in mano troppi e ho cominciato, energico, a sbatterli. All’improvviso mi sono scappati delle mani e dal davanzale della mia finestra al sesto piano e sono precipitati nel cortile.
Solitario, il Dottor Pasavento di Vila Matas, è stato l’unico a sopravvivere.
In basso, sempre con lo sguardo e l’orecchio verso il cortile interno, due bambine pedalano in tondo con le loro biciclette rosa. Per terra, disegnato con gessetti colorati, un po’ scolorito c’è il gioco del mondo.
Partendo dal coinvolgimento degli autori che hanno partecipato al progetto End. Words from the margins. New York City e alla pubblicazione The Sound of The Woodpecker Bill: New York City (con Francesca Benedetto, Lorenzo Giusti, Mario Maffi, Cecilia Canziani, Steven N. Handel, Francesca Berardi, Claudia Durastanti, Anna de Manincor) mi espando verso altri voci e altri sguardi.
Le pagine di questo quaderno, che si alterneranno nell’arco delle prossime settimane, sono una riflessione intorno alla mostra Il suono del becco del picchio inaugurata il 13 febbraio alla GAMeC negli spazi dell’Ala Vitali dell’Accademia Carrara e chiusa a causa dell’epidemia qualche settimana fa.
Non potendo più camminare intorno ai margini delle nostre città e dentro le stanze dei musei, possiamo però inventarci nuove esplorazioni verso geografie che non richiedono sforzi fisici, ma soltanto uno spostamento immaginifico del nostro pensiero, in grado di spalancare finestre su altre possibili realtà.
Ringrazio la GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo – che mi ha invitato ad arricchire una stanza del suo museo e tutti gli artisti, scrittori, fotografi e giornalisti che hanno accettato di accompagnarmi con il loro sguardo in questo nuovo, improvviso e imprevedibile ‘giro del giorno’ perché la geografia dei luoghi è un’immagine elastica che si allunga e si stringe in base al nostro umore e alla nostra capacità di collegare storie anche molto diverse e lontane nel tempo, come i punti luminosi di una costellazione.
Narrare per immagini è, soprattutto, un modo per immaginare un altro mondo possibile.
Antonio Rovaldi
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CAPITOLO 1: LAST STOP
Una lettera a William B. Helmreich
Antonio Rovaldi, artista, Milano, Italia
Milano • via Petrella 9 • 2 Aprile 2020
Caro William,
questa mattina mi sono svegliato che albeggiava. Ho aperto la finestra del soggiorno e c’era un cielo terso con una sfumatura rosa e ancora qualche camino acceso con il fumo bianco. La strada, anche questa mattina, era deserta: uno strascico di inverno misto a una primavera semi sbocciata che ora possiamo vedere solo dall’alto, in questi giorni tristi e sospesi, ma non per questo solo angoscianti nel silenzio protetto delle nostre case. Ho saputo della tua improvvisa scomparsa, a causa di questo maledetto virus, dal mio amico botanico Steven N. Handel che, barricato anche lui nella sua casa da qualche parte nel New Jersey, mi invitava a leggere la notizia attraverso un ricordo pubblicato sul New York Times. Per Steven, forse, era l’ultima email della serata, per me è stata la prima di questa giornata e mi è venuta anche un po’ di malinconia.
Ho ripensato alla breve lettera che ti scrissi circa due anni fa per dirti che avevo cominciato una lunga camminata lungo i margini di New York City che mi avrebbe tenuto impegnato nei due anni a seguire. Avevo cominciato a leggere il tuo ultimo libro The New York Nobody Knows / Walking 6.000 Miles in The City – acquistato da Strand nella sezione dei libri dedicati alla città – durante la primavera del 2016, quando vivevo con Francesca in una casa di mattoni rossi a West Harlem, all’angolo tra la 123th strada e Manhattan Ave. Quella lettera, poi, non te l’ho mai spedita. Steven non sapeva che il tuo bellissimo libro è rimasto dentro il mio zaino per un lungo periodo – tra pellicole fotografiche, quaderni e barrette energetiche – quando cominciai a camminare a piedi l’intero waterfront della città per realizzare il libro The Sound of The Woodpecker Bill: New York City, di cui tanto avrei voluto fartene avere una copia. Magari te lo allungo la prossima volta che ritorno a New York, ma chissà quando capiterà. Ho sempre amato moltissimo camminare nei cimiteri, luoghi dove ci si può ancora proteggere dal rumore della città e riposare sotto un albero. Spero tu abbia trovato un angolo nel verde e il tuo albero vicino. Tornando al tuo libro, è stato uno dei primi a dare il via a una ricca collezione di testi dedicati a New York City che nei mesi, mentre camminavo intorno ai margini della città fino a raggiungere l’oceano, si sono appoggiati sul mio tavolo, prima nella casa di Harlem e poi nel mio studio in via Padova, qui a Milano, dove ora ti sto scrivendo. Tu e il mio amico Steven del New Jersey, più di altri newyorkesi, conoscete bene il piacere fisico che si prova camminando lungo alcune zone del waterfront di New York City, soprattutto in primavera quando l’aria sa di mare, di cielo pulito e cementi dolciastri. Sei stato fortunato ad aver avuto un padre che ti ha accompagnato alla scoperta della tua città attraverso il gioco dell’ultima fermata della metropolitana – Last Stop – attraverso il quale hai cominciato a esplorare, blocco dopo blocco, i quartieri ai margini e i suoi abitanti, viaggio che poi hai completato nel tuo ultimo bellissimo inno alla città: The New York Nobody Knows.
Come ha detto il tuo amico e professore di storia ebraica, Jonathan Sarna, ricordando la tua socialità spiccata nell’articolo uscito il 30 Marzo sul New York Times: “He was in the wrong profession for the coronavirus. Willie loved talking to people. Social distancing was not in his nature.”
Ero New York City solo un mese fa, in occasione della presentazione del mio libro insieme a Steven N.Handel. Il 5 marzo sono rientrato in Italia e dopo pochi giorni la città si preparava alla quarantena. Da quei giorni non sono più uscito di casa. Non so quando potremo tornare a camminare normalmente per le strade delle nostre città. Comincia a mancarmi il mio studio, che è solo a qualche centinaio di metri da casa mia. Oggi dovrebbe arrivarmi il tuo libro, l’ho ordinato per la seconda volta perché la prima copia l’avevo regalata tre anni fa ad amici che vivono a Brooklyn, non potendo riportarmi in Italia la mia piccola libreria americana. Non vedo l’ora che la portinaia mi squilli al citofono per dirmi di scendere perché c’è un pacco per me.
Grazie per avermi accompagnato con il tuo sguardo pungente e ironico e il tuo passo curioso verso la fine della città, riemergendo sempre dal fondo del mio zaino ogni volta che mi fermavo a riposare davanti all’oceano con un bagel in mano.
Ci vediamo presto a New York City all’ombra del tuo albero.
Ti porterò in cambio il mio libro, che un po’ è anche figlio del tuo.
Antonio
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William Helmreich, Sociologist and a Walker in the City, Dies at 74 / By Joseph Berger, March 30, 2020 / New York Times
https://www.nytimes.com/2020/03/30/nyregion/william-helmreich-dead-coronavirus.html?smid=em-share
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Tutte le foto: © Antonio Rovaldi
Il giro del giorno è un quaderno personale di Antonio Rovaldi, nato dal desiderio di dare voce ai contenuti della mostra Il suono del becco del picchio, inaugurata lo scorso febbraio alla GAMeC negli spazi dell’Ala Vitali dell’Accademia Carrara. Rovaldi ha invitato artisti, scrittori, fotografi e giornalisti ad accompagnare, con il loro sguardo, il lettore verso nuove possibili geografie che non richiedono sforzi fisici, ma soltanto uno spostamento immaginifico del nostro pensiero.
CAPITOLO 1: LAST STOP
Una lettera a William B. Helmreich
Antonio Rovaldi, artista, Milano, Italia
Il giro del giorno è parte del progetto End. Words from the Margins, New York City, promosso dalla GAMeC in partnership con l’Università di Harvard (Graduate School of Design), il Kunstmuseum di San Gallo e Magazzino Italian Art di Cold Spring (NY), con cui l’artista ha vinto la quinta edizione dell’Italian Council, il programma di promozione dell’arte contemporanea italiana nel mondo della Direzione Generale Creatività contemporanea e Rigenerazione urbana del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo.