Dal 9 giugno al 23 settembre 2007 la GAMeC “si trasferisce” a Venezia organizzando una grande personale dal titolo Jan Fabre. Anthropology of a planet allestita nelle sale di Palazzo Benzon – dimora storica che si affaccia sul Canal Grande – che presenta la ricerca dell’artista fiammingo nella sua molteplicità spaziando dalle sculture ai film, dai disegni alle installazioni. La mostra è a cura di Giacinto Di Pietrantonio che ha già curato nel 2003 la personale di film e disegni di Fabre Gaude Succurrere Vitae alla GAMeC di Bergamo e nel 2006 la monografia “Homo Faber” che raccoglie le opere complete dell’artista dal 1978 al 2006 realizzata in occasione dell’omonima mostra ad Anversa. La mostra rientra tra gli eventi collaterali della 52. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia.

La mostra si sviluppa lungo l’androne di ingresso e nelle sale del palazzo presentando una serie di grandi installazioni ambientali intervallate da numerosi disegni e sculture di medio e piccolo formato.
Il percorso espositivo ne svela da subito il titolo, Anthropology of a planet, che si materializza agli occhi del visitatore all’ingresso della dimora attraverso una scultura in marmo bianco che rappresenta un uomo anatomico-muscolare nell’atto di vangare il cervello su cui si trova poggiato: il titolo dell’opera è proprio “Antropologie van een planeet” (Marmeren Denkmodel, Studie,I) “Antropologia di un Pianeta” (Modello di pensiero marmoreo, Studio I) del 2007.
Da sempre Fabre pone al centro della sua ricerca il corpo, inteso al contempo come realtà fisica e dimensione mentale. Proprio il cervello, contraltare fisico dell’intelletto, è l’ossessione dell’artista in questa mostra che lo ripropone, suddividendolo in varie tipologie, ciascuna come modello di pensiero, in disegni, sculture, installazioni o film, come “Is the Brain the most Sexy Part of the Body?” (E’ il cervello la parte più sexy del corpo?), 2007, un cortometraggio di circa 15 minuti in cui vediamo l’artista seduto di fronte allo scienziato naturalista ecologista Edward O. Wilson impegnati, sotto la luce di due lampade poliziesche, in un interrogatorio, nel continuo scambio di ruoli, tra poliziotto e gangster sul senso della bellezza, sul senso dell’etica, sul senso della sessualità, sul senso della vita insomma.

Accanto all’ingresso, nel portico, è collocata la grande scultura-istallazione “De Man die op het water schrijft” (L’uomo che scrive sull’acqua)), 2006, composta da 7 vasche da bagno in bronzo, dove la scultura-ritratto dell’artista è colta nell’atto di scrivere col dito sull’acqua, gesto di impossibilità, ma metafora di metamorfosi del creare, del creato e del continuo creare.
Oltre all’ossessione per il cervello e alle sue potenzialità intellettive e creative, la mostra presenta tutti gli aspetti salienti della poetica di Fabre, il suo riflettere la natura umana, fragile e mortale, e il desiderio verso il superamento di questa precarietà, attraverso i temi cari alla tradizione fiamminga: la follia, la malattia, la morte, la dolcezza del peccato, la rigenerazione, la forza spirituale. L’essere umano, quindi la sua caducità, è argomento centrale della sua opera, anche attraverso l’esaltazione del ciclo nascita-vita-morte-rinascita. L’uomo e la morte quindi, e proprio alla morte fa cenno la grande installazione composta da 250 lapidi cimiteriali di granito nero o grigio venato, su cui sono incisi in fiammingo nomi di insetti con date di nascita o nascita e morte di artisti, filosofi, musicisti, ecc. viventi e scomparsi e dove troneggia figura-scultura-ritratto dell’artista che sputa sulla propria tomba (“Ik spuw op mijn eigen graf” (Sputo sulla mia tomba), 2007) in omaggio allo scrittore Boris Vian, da cui prende in prestito il titolo; o ancora la scultura dell’artista impiccato che brilla come fosse d’oro (“Dependens” (Appeso), 1979-2002).

Sovente Fabre sviluppa il concetto di rinascita e superamento dei limiti attraverso l’immagine di insetti che popolano la sua fantasia e il suo lavoro, in particolar modo lo scarabeo. Lo scarabeo diventa paradigma assoluto della trasformazione e della rigenerazione nel mondo della natura e della condizione umana. Questo interesse per le scienze e la passione per gli insetti, in particolar modo dei coleotteri, è stata ereditata dal bisnonno, il famoso entomologo Jean-Henri Fabre, ed ha rappresentato un passaggio fondamentale nella formazione dell’artista. Così egli utilizza questo insetto come parte fondamentale di diverse opere presenti in mostra: in un campo di battaglia cosparso di frammenti di luccicanti armature e teste di insetto, paesaggio di vita e di morte e memoria dell’azione dei cavalieri della bellezza (Sanguis mantis landscape battlefield” (2004)); lo fa divenire corazza di una sfera simbolica della terra e del cosmo da cui fuoriesce una testa di cigno ((“Le probleme” (2001)); o vi ricopre la coda che si diparte da un bacino umano, memoria di un’epoca precedente la trasformazione evolutiva conquistata con la posizione eretta con cui l’artista si oppone al semplice processo di civilizzazione che ci ha portato a lasciarci alle spalle miti e leggende a cui egli offre asilo (“Tail” (Coda), 1999).