Dal 9 giugno al 25 luglio 2010 lo Spazio Zero della GAMeC la mostra L’Ipotesi del Cristallo, a cura di Yoann Gourmel ed Élodie Royer, vincitori della V Edizione del Premio Lorenzo Bonaldi per l’Arte – EnterPrize.

Segnalati da Florence Derieux (Direttore FRAC Champagne-Ardenne), Yoann Gourmel ed Élodie Royer sono stati premiati nel giugno 2009 da una giuria internazionale composta da Iwona Blazwick (Direttore Whitechapel Gallery, Londra), Rein Wolfs (Direttore Artistico Kunsthalle Fridericianum, Kassel) e Giacinto Di Pietrantonio (Direttore GAMeC, Bergamo).

Il progetto di Yoann Gourmel ed Élodie Royer raccoglie opere di dieci artisti contemporanei che trattano vari aspetti della visione e diversi modi di vedere per evocare, talvolta in modo anacronistico, le modalità con cui osserviamo le cose al giorno d’oggi, la maniera in cui guardiamo al presente. Se l’abbagliamento può essere definito come un’impossibilità di discernere la realtà, possiamo affermare che l’era in cui viviamo, ultra-satura di conoscenze e di immagini usa e getta, provoca un abbagliamento collettivo e simultaneo. Questo abbagliamento ripetuto, se meditiamo sul nostro rapporto con l’epoca odierna, determina una sorta di cecità.

Tuttavia, tale cecità – la perdita forzata ma necessaria della vista che ci obbliga a guardare indietro al passato – potrebbe anche aiutarci a svelare e a definire con precisione il cammino che ci attende.

La mostra fa inoltre riferimento alle ipotesi formulate dal filosofo italiano Giorgio Agamben in un breve saggio intitolato “Che cos’è il contemporaneo?”, in cui egli definisce il contemporaneo come “il singolare rapporto con il proprio tempo a cui si aderisce mantenendosi a distanza” – una definizione che l’autore sviluppa ulteriormente grazie all’analisi di vari processi (fisico, poetico, fenomenologico) che hanno qualche rapporto con la vista e il con il processo della visione. Basandosi sulla neurofisiologia della visione, Agamben spiega, pertanto, che possiamo considerare l’oscurità non come una mera assenza di luce, qualcosa di simile a una non-visione, ma come il risultato di un’inattività. In questo senso, percepire l’oscurità di un’epoca non costituisce una forma di inerzia o di passività.
Come egli infine suggerisce, “contemporaneo è colui i cui occhi ricevono direttamente i raggi dell’oscurità proveniente dalla sua epoca”. Guardare l’oscurità sarebbe, dunque, un modo per evitare di essere accecati dalle luci del nostro tempo. Gli artisti di tutte le epoche hanno regolarmente fatto un passo indietro nel passato per affrontare il presente e per anticipare il futuro.

Il titolo della mostra prende il nome da un particolare tipo di calcite, lo Spato d’Islanda, che produce una doppia rifrazione: un oggetto posto dietro a questo cristallo appare infatti diviso, e presenta un leggero sfasamento rispetto alla sua forma originale.
Questa doppia rifrazione può essere attribuita a un fenomeno temporale: attraverso il cristallo, infatti, la luce viaggia a velocità differenti; un’immagine è più vecchia dell’altra e si biforca in un’altra direzione.

In un certo senso, l’ipotesi della coesistenza di una doppia temporalità fa eco alle opere presentate nella mostra, in cui alcuni anacronismi sembrano esistere per esprimere meglio il presente di cui fanno parte. Le figure del cieco e dell’abbagliato (Julien Crepieux, Benoît Maire), gli standard della rappresentazione (Isabelle Cornaro, Ryan Gander), la circolazione di immagini (Mark Geffriaud, Clément Rodzielski), la distanza da cui osserviamo le cose del passato (Ulla von Brandenburg, Adrian Ghenie, Bojan Šarcevic) sono alcuni degli elementi che caratterizzano questa mostra e le opere in essa presentate.
La mostra è accompagnata da un disco in vinile realizzato e prodotto dall’artista Bruno Persat, che include brani, suoni e testi suggeriti dagli artisti, legato alle opere in mostra.

Nello spazio espositivo i lavori dialogano tra loro in una condizione di relativa oscurità, interrotta di tanto in tanto dalla luce prodotta da diverse sorgenti – artificiale, naturale o proveniente dalle opere stesse. Questo ambiente in dissolvenza offre l’opportunità di stabilire delle associazioni tra opere che, sebbene diverse da un punto di vista formale, rivelano strette connessioni l’una con l’altra.

Il catalogo della mostra contiene una conversazione tra Yoann Gourmel ed Élodie Royer sulla genesi della proposta espositiva; immagini di tutte le opere in mostra e testi redatti dagli artisti, corredati da un intervento di Benoît Maire intitolato Aesthetics of the the Differends, strettamente legato a una delle sue opere presenti nella collettiva.

Originale il formato del catalogo: un opuscolo che ricorda i libretti dei dischi in vinile. Ideato dai due curatori, in collaborazione con i graphic designer francesi Coline Sunier e Charles Mazé, questa pubblicazione bilingue intende essere un progetto autonomo, e non un semplice catalogo illustrativo.
La pubblicazione accompagnerà il 33 giri realizzato dall’artista Bruno Persat, entrambi in vendita presso il bookshop del Museo.