Dal 7 ottobre al 13 novembre 2016 lo Spazio Zero della Galleria ospita una personale dedicata a Carlo Benvenuto (Stresa, 1966), che presenta un nucleo di nuovi lavori – prodotto appositamente per l’occasione – ritraente oggetti di uso quotidiano rigorosamente in scala 1:1

Nature morte di differenti dimensioni, tutte ispirate allo straniamento, al metafisico, alla sospensione della realtà, che scaturiscono nello spettatore una sensazione simile a quella che si trova nelle atmosfere dei racconti di Raymond Carver, dove l’usuale, il quotidiano, diventa altro, velatamente minaccioso, in attesa che qualcosa accada.

Le opere di Benvenuto sono realizzate con negativi tradizionali, chimici, senza utilizzo del digitale né in fase di ripresa né in post produzione; senza alcun fotoritocco. L’artista declina la luce come colore e lo spazio come disegno, dando “corpo e sostanza a un’immagine pensata, a un’astrazione mentale, nel tentativo di affrancarsi dal peso della realtà”.

Le tre opere di dimensioni maggiori ospitate in mostra (cm 225×170, tutte del 2016) sono state realizzate sovrapponendo più scatti sul medesimo negativo fotografico, una tecnica che crea una dinamica simile a quella della pittura classica. Come spiega lo stesso artista: “Il primo scatto, come fosse il disegno, ferma la composizione e ne detta la struttura dividendo lo spazio; l’atto del dipingere è rappresentato dalle successive esposizioni del negativo, che si comportano come il colore, che ricerca la sua perfezione in stratificazioni e velature sovrapposte. L’opera che ne risulta, dunque, nonostante abbia le radici nella realtà contingente, poeticamente se ne libera nel tentativo di corrispondere all’intenzione, all’immagine mentale”.

Un’opera di dimensioni minori (cm 67×122) presenta una natura morta con bottiglia e coppa che riferisce direttamente a una certa pittura metafisica o postcubista, dove la rigidità della struttura e la severità dei colori rende irreale e assoluta la più semplice delle composizioni. Questa sospensione estetica viene raggiunta, anche in questo caso, sovrapponendo più scatti in modo da evitare i dettagli, le ombre e la pedissequa descrizione delle cose raffigurate.

Il percorso continua con l’esposizione di due dittici: nel primo (cm 63×58) viene rappresentato un biscotto dechirichiano appoggiato su una tovaglia bianca, al limite del tavolo. Il gioco pittorico delle sfumature di colore si spinge fino a rendere ambigua la distinzione tra fotografia e pittura. La composizione si regge di volta in volta aggrappandosi alla nota di verde o di rosso della ciliegia che decora il dolce. Nel secondo (cm 68×68), la calma e polverosa sfumatura pittorica delle tazze di porcellana viene turbata dal grido scarlatto di una ciliegia candita, prima solitaria poi in compagnia di un mazzetto di garofani avvolti nell’abbraccio trasparente del nastro adesivo.

Completano il percorso tre bicchieri in vetro di Murano, scolpiti come fossero bicchieri pieni d’acqua fino all’orlo, e talmente colmi da indurci a avvicinarci con cautela – come fosse impossibile non rovesciarli –, e una serie di disegni realizzati a penna a sfera Bic, nei 4 colori nero, blu, rosso e verde. Il disegno, come la fotografia, è in presa diretta, un segno è definitivo e per sempre, un po’ come accade esponendo i negativi: “una volta impressionati dalla luce” – afferma l’artista – “non si può far altro che accettarli o scartarli in toto”.

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