Pedro Vaz
Becoming Mountain
4 ottobre 2025 – 18 gennaio 2026
Bergamo, GAMeC
Becoming Mountain è una grande installazione pittorica di Pedro Vaz ispirata al paesaggio montano dell’Alta Via delle Orobie Bergamasche e sviluppata dopo un’esperienza di trekking sulle nostre montagne.
Il dipinto raffigura una veduta della Presolana, restituita attraverso lo sguardo e l’esperienza diretta dell’artista portoghese: un approccio che riflette pienamente la sua pratica, basata sul contatto diretto con luoghi remoti, esplorati nell’ambito di spedizioni che stimolano un’esperienza corporea immersiva, da cui prende forma il processo creativo di Vaz, tra figurazione e astrazione.
L’opera dialoga con il dipinto Veduta del Pizzo della Presolana (1908) di Ermenegildo Agazzi esposto all’ingresso del museo: una celebrazione dell’imponente montagna delle Alpi Orobie osservata da un punto di vista lontano, che restituisce la monumentalità della sua parete orientale. La prospettiva adottata da Agazzi riflette l’approccio della tradizione pittorica ottocentesca dei paesaggi, dove la natura è considerata come un oggetto di contemplazione estetica, guardata a distanza e filtrata attraverso lo sguardo dell’uomo. Più di un secolo dopo, Pedro Vaz si reca sulla stessa montagna ma con un atteggiamento molto diverso. Nell’agosto 2025, l’artista compie un cammino di tre giorni che lo porta a percorrere circa venti chilometri, da Castione della Presolana fino a Colere, rimanendo fianco a fianco alla parete minerale, “così vicino che l’orizzonte scompare”. La montagna è presente, potente e viscerale, e al suo fianco “il corpo cessa di essere uno spettatore e diviene parte integrante della montagna”.
Nel raccontare il paesaggio come un’esperienza incarnata e vissuta, Vaz realizza un dipinto di grandi dimensioni sospeso e realizzato su carta. La veduta della Presolana circonda le persone grazie a una struttura a curva conca, che le pone a distanza ravvicinata con la superficie della pittura, come se fossero di fronte alla parete dolomitica. A dispetto della pittura dal vero (e da lontano) dei pittori ottocenteschi, Vaz traccia le sagome del massiccio alpino affidandosi al ricordo del suo cammino e, in un processo di cui non ha il pieno controllo, stratifica il colore sulla carta per poi in parte lavarlo via con l’acqua, creando ombre e sfumature imprevedibili.
Il titolo del Biennale delle Orobie, Pensare come una montagna, si traduce nel progetto di Vaz, Becoming Mountain, in un invito ad abbracciare la fisicità della natura, a farne esperienza fisica attraverso il corpo e non solo con lo sguardo: non più illustrare la montagna, ma vivere con intensità l’essere dentro la montagna.
Bianca Bondi
Graces for Gerosa
4 ottobre 2025 – 18 gennaio 2026
Gerosa, Val Brembilla
L’opera Graces for Gerosa è stata concepita dall’artista Bianca Bondi (Johannesburg, 1986) appositamente per la chiesa sconsacrata di origine romanica di Santa Maria in Montanis. Collocata in un punto strategico, la chiesa veglia sul paesaggio della Val Brembilla e sulle cime circostanti, affacciandosi su un reticolo di antichi sentieri che un tempo collegavano le valli vicine. Oggi, privata della sua funzione religiosa, Santa Maria in Montanis conserva intatta la sua forza evocativa.
Il progetto di Bondi, sviluppato in dialogo con la sobria architettura in pietra, restituisce alla comunità uno spazio carico di significati, accentuando l’aura sospesa e la vocazione simbolica di questo luogo. Al centro dello spazio si colloca un gruppo scultoreo composto da sette figure a grandezza naturale, realizzate in gesso a partire dai corpi di persone volontarie del paese. Ogni scultura nasce da un calco diretto: non è tanto la superficie esterna a essere protagonista, quanto l’interno, che conserva con precisione la memoria della presenza fisica. In questo modo, le figure vuote si trasformano in vere e proprie sculture interiori, gusci che evocano fossili umani, tracce mineralizzate di gesti e movimenti. Come fossili, esse trattengono l’impronta di un’esistenza, restituendo la permanenza di chi ha prestato il proprio corpo per la produzione dell’opera.
In Graces for Gerosa, particolare risonanza assume il rimando a una figura femminile della tradizione iconografica, letta dalla storiografia come emblema della Nachleben der Antike (“sopravvivenza dell’antico”): un’ancella danzante, leggera e sospesa tra corporeità e spiritualità. Quelle qualità di grazia e levità riaffiorano qui, incarnate non in un ideale astratto, ma nelle fisicità concrete dei sette volontari di Gerosa, uomini e donne di età diverse.
L’iconografia delle Grazie, intese come figure capaci di suggerire un’armonia corale e cosmica, trova nuova vita nella collettività dell’opera, dove il corpo umano si fa medium tra il terreno e l’immateriale, attualizzando la continuità di gesti e forme attraverso il tempo.
I movimenti, pur citando celebri raffigurazioni della danza collettiva nella storia dell’arte – dalle Tre Grazie di Botticelli nella Primavera (1482), alle figure femminili del Parnaso di Mantegna (1497), fino alle
scene rituali etrusche della Tomba del Triclinio (V sec. a.C.) –, si incontrano e si trasformano nei corpi dei sette abitanti di Gerosa: corpi unici, con le proprie espressività, che riscrivono il modello originario.
Il gesso delle sculture sembra nascere dalla stessa materia dell’edificio che le accoglie, come un’estensione ideale dell’intonaco di Santa Maria in Montanis. La luce naturale che filtra dalle aperture della chiesa accarezza le superfici bianche, riflettendosi sulle cristallizzazioni saline che punteggiano il pavimento, e contribuisce a generare un’atmosfera sospesa, in equilibrio tra raccoglimento e liberazione, spiritualità e corporeità. La scelta di privare i corpi scultorei del volto, sostituendolo con bouquet di fiori, coralli e materiali organici cristallizzati, non solo tutela l’identità dei partecipanti, ma trasforma ogni corpo in un contenitore vitale di energia e di rinascita.
In continuità con altre opere di Bondi, Graces for Gerosa si colloca nella ricerca dell’artista sulla ritualità e sulla trasformazione organica. Nei suoi lavori, Bondi combina pratiche installative, scultoree e performative con materiali in costante mutazione – fiori essiccati, acqua, cristalli, pigmenti, sale – dando vita a scenari che si comportano come ecosistemi autonomi, capaci di evolvere nel tempo. Le sue installazioni, spesso pensate per contesti specifici, attivano ritualità collettive e spazi di meditazione sensoriale, aprendo alla possibilità di concepire i differenti luoghi espositivi come organismi viventi, permeabili al cambiamento e alle forze naturali. Muovendosi lungo la soglia tra vita e disfacimento, Bondi realizza ambienti che assumono la forma di cerimonie condivise. Ogni elemento naturale diventa strumento di metamorfosi e di rinascita.
Storicamente, la danza era vietata negli spazi sacri, considerata un atto irriverente. Con Graces for Gerosa questo tabù viene superato: il movimento torna all’interno della chiesa non come gesto di ribellione, ma come atto di riconciliazione, un rito che restituisce al corpo umano la sua funzione di ponte tra terreno e immateriale. La danza si fa così linguaggio universale di unione e celebrazione collettiva.
Domenica 16 novembre, ore 9:00-11:00
La Proloco di Val Brembilla organizza un percorso guidato in due aziende agricole del paese e all’opera Graces for Gerosa
Ore 9:00 Visita guidata e degustazione – Azienda Agricola Offredi Marco
Ore 9:45 Visita guidata e degustazione – Azienda Agricola “I Canti”
Ore 10:30 Visita guidata all’opera Graces for Gerosa – Chiesa di Santa Maria in Montanis
Attività gratuita; prenotazione obbligatoria entro il 12 novembre
E’ possibile partecipare ai singoli appuntamenti o all’intero percorso
Proloco Val Brembilla
E-mail: prolocobrembilla@gmail.com
Cell. 388 7777354
Abraham Cruzvillegas
An unstable and precarious self-portrait munching some traditional Fritos, sipping a couple of caballitos of Casa Dragones, after a busy journey with some dear friends, listening at the same time to the ‘Clair de lune’, performed by Menahem Pressler, and ‘Folie à Deux’, by Stefani Joanne Angelina Germanotta
4 ottobre 2025 – 18 gennaio 2026
Dalmine
L’artista Abraham Cruzvillegas (Città del Messico, 1968) presenta un nuovo intervento site-specific nel cuore dell’area industriale di Dalmine: un’opera che si sviluppa come un gesto collettivo e relazionale, realizzato in collaborazione con la Fondazione Dalmine, il Comune e tre cooperative sociali che operano sul territorio (Il Sogno, La Solidarietà e Oasi Il Picchio Verde), utilizzando materiali di scarto e oggetti quotidiani provenienti dal contesto industriale di TenarisDalmine e dalle realtà agricole della zona.
La scultura, installata nel parco della Fondazione Dalmine, non è che il punto di arrivo di un processo che valorizza la partecipazione, l’improvvisazione, l’imprevisto, l’errore, l’instabilità quali strumenti che guidano la riflessione di Cruzvillegas. Muovendosi nel solco della sua ormai nota pratica dell’“autoconstrucción”, un approccio che prende ispirazione dai processi spontanei e informali di costruzione abitativa nelle periferie di Città del Messico, dove è cresciuto, l’artista ha adattato la propria metodologia alla specificità del luogo, scegliendo, per la sua composizione, elementi impregnati di stratificazioni culturali e territoriali, con riferimenti alla storia economica di Dalmine, ai suoi paesaggi naturali, alla fauna e alla flora, all’ingegneria, al lavoro e alla solidarietà.
Il verde ultra-opaco e il rosa iper-lucido scelti per dipingere le tre carriole che svettano su altrettanti tubi d’acciaio come bandiere improvvisate, sono colori ricorrenti nel lavoro di Abraham Cruzvillegas sin dal 2004, quando l’artista visitò la scuola di samba Mangueira, situata nell’omonima favela di Rio de Janeiro, un luogo profondamente legato alla figura di Hélio Oiticica, che lì era solito danzare e per cui concepì i celebri Parangolé. In quell’occasione – che Cruzvillegas definisce come un vero e proprio pellegrinaggio artistico – nasce l’adozione di questa combinazione cromatica, un richiamo alla comunità di Mangueira e all’eredità di Oiticica.
Applicando i due colori in modo speculare – ciascuno dei quali occupa metà della superficie –, l’artista crea inoltre un contrasto orizzontale che divide gli elementi della scultura a metà, come se fossero attraversati da una sorta di “linea d’orizzonte” visiva.
L’opera, come accade spesso nei lavori dell’artista, rifiuta un significato univoco o una lettura didascalica. Piuttosto, si propone come un dispositivo aperto all’interpretazione, capace di evocare immagini differenti a seconda dello sguardo di chi osserva. Le carriole possono essere viste come strumenti del lavoro agricolo o simboli di fatica operaia; le aste metalliche possono suggerire infrastrutture industriali o totem rituali. In ogni caso, l’opera invita a ripensare le nostre categorie interpretative, a osservare il territorio con occhi nuovi, a rinegoziare i concetti ambigui e mutevoli di ciò che chiamiamo “progresso”, nonché a riflettere sulla nostra relazione con l’ambiente e la storia.
Il titolo stesso, An unstable and precarious self-portrait munching some traditional Fritos, sipping a couple of caballitos of Casa Dragones, after a busy journey with some dear friends, listening at the same time to the ‘Clair de lune’, performed by Menahem Pressler, and ‘Folie à Deux’, by Stefani Joanne Angelina Germanotta, non definisce l’opera, ma, esattamente come l’assemblaggio di elementi apparentemente dissonanti che configura la scultura, allude alla mescolanza di esperienze individuali e collettive, memorie personali e riferimenti culturali globali, che convivono senza gerarchie, in una composizione aperta e polisemica.
In occasione della giornata inaugurale, il musicista e performer Dudù Kouate ha attivato, attraverso il suono, la scultura e alcune carriole utilizzate nel lavoro quotidiano dai membri delle Cooperative che hanno partecipato al progetto. La performance, nata da un dialogo fra Dudù Kouate e Abraham Cruzvillegas, racconta del processo creativo e della scultura attraverso suoni e musica.
L’installazione è sempre visibile da Via Adamello, e fino al 18 gennaio in occasione di date programmate indicate sul sito di Fondazione Dalmine.
fondazionedalmine.org
Gaia Fugazza
Mother of Millions
4 ottobre 2025 – 18 gennaio 2026
Sottochiesa
Il progetto sviluppato da Gaia Fugazza in collaborazione con NAHR – Nature, Art & Habitat Residency in seguito a un periodo di residenza in Val Taleggio, è una scultura di grandi dimensioni realizzata in argilla di Impruneta, lavorata artigianalmente a colombino e volutamente non lisciata. La porosità del materiale permette ai sali di affiorare in superficie, creando una patina bianca dall’aspetto caseoso, che conferisce all’opera un aspetto vivo, in continuo mutamento.
L’opera rappresenta una figura umana ispirata alla pianta Mother of Millions (Kalanchoe delagoensis), una succulenta originaria del Madagascar capace di riprodursi in maniera asessuata, creando cloni direttamente dai margini delle sue foglie: nuovi germogli che, cadendo al suolo, generano altre piante. Questa capacità rigenerativa diventa per Fugazza una metafora in cui il mondo vegetale e quello umano si rispecchiano in una medesima tensione verso la continuità e la trasformazione.
La figura è modellata con le braccia aperte in un gesto che sembra sostenere lo slancio per rialzarsi, evocando al tempo stesso un abbraccio rivolto alla collettività e un gesto di mutuo sostegno. È come se le braccia, cariche di germogli-figli, da un lato fossero pronte ad accogliere un’ulteriore moltitudine, ma dall’altro cercassero un sostegno per trovare la forza di rialzarsi e proseguire. L’assenza di una fisionomia definita priva la scultura di un’identità individuale e la trasforma in un corpo collettivo, che sostiene la comunità e a cui esso stesso sembra appartenere. Mother of Millions pone una serie di questioni implicite: Chi si preoccupa e si prende cura? A chi è rivolta la cura? A chi viene assegnato l’obbligo della cura? Interrogarsi su questi aspetti è un modo per riconoscerne la forza generativa, la capacità di pensare in maniera collettiva, dando vita a saperi e pratiche critiche.
La superficie dell’opera è solcata da incisioni e pigmenti colorati che raffigurano piante, fiori, animali al pascolo, cani da pastore, prati della transumanza: frammenti visivi raccolti da Fugazza durante la sua permanenza in Val Taleggio. Questi segni, impressi nella terracotta, rimandano a un linguaggio arcaico, evocando la memoria delle incisioni rupestri come primi gesti con cui le comunità umane hanno iscritto la propria presenza nel mondo. Se un tempo umanoidi allungati, figure teriantrope e altri segni raccontavano pratiche rituali, divinatorie, o stati di coscienza non ordinari, qui diventano la pelle stessa del corpo-scultura, che ingloba e restituisce il paesaggio circostante e connettono l’umano al più che umano, il corporeo al cosmico. Non c’è una separazione tra corpo e ambiente: il corpo è paesaggio e il paesaggio è corpo. Questa osmosi è un’affermazione che invita a ripensare l’umano non come “altro” dalla natura, ma come parte inseparabile di un ecosistema esteso.
Inserita nella Stalla Gherba di Sottochiesa, edificio rurale della Val Taleggio fortemente caratterizzato, l’opera stabilisce un legame profondo con un luogo che accoglie animali, fatiche quotidiane e la valle che si apre dinnanzi al suo sguardo. Lo spazio, abitualmente destinato al sostentamento, diventa qui custode di una scultura che interroga il rapporto tra cura, rigenerazione e comunità.
La pratica di Fugazza si distingue da anni per la creazione di figure umane che, pur mantenendo tratti antropomorfi, si trasformano liberamente in altri esseri e specie, sfuggendo a rigide definizioni identitarie. Corpi in costante movimento, capaci di oltrepassare confini biologici, sessuali e culturali, incarnano una forma di nomadicità che va oltre l’aspetto formale, assumendo una valenza politica ed ecologica. Le sue opere propongono un corpo che non si radica, ma si ibrida e si reinventa continuamente, riflettendo la condizione delle comunità montane: realtà spesso percepite come isolate, ma che nella capacità di adattamento e nel sostegno reciproco trovano la propria forza vitale.
La scultura è dunque simbolo di un corpo universale, fragile e potente allo stesso tempo, che invita a pensare l’umano come parte di un ecosistema in costante trasformazione. Un corpo che, come la pianta da cui prende ispirazione, genera e rigenera, moltiplica e si offre alla moltitudine.
Visitabile nei seguenti giorni e orari:
Sabato 1 novembre, ore 13:00-16:00
Sabato 6 dicembre, ore 13:00-16:00
Sabato 27 dicembre, ore 13:00-16:00
Sabato 3 gennaio, ore 13:00-16:00
Coordinate Google Maps (imbocco Via Santa Rosa)
Coordinate Google Maps (Stalla Gherba)
Per informazioni: biglietteria@gamec.it
Agnese Galiotto
La montagna non esiste
Dal 4 ottobre 2025
Almenno San Bartolomeo
L’artista Agnese Galiotto (Chiampo, 1996) trasforma una parete del centro storico di Almenno San Bartolomeo in un racconto visivo carico di suggestioni, che indaga la relazione profonda tra essere umano e natura.
L’affresco, realizzato con la tecnica tradizionale, si sviluppa su una parete affacciata sulla piazza centrale del paese e richiama nella composizione triangolare la sagoma del Monte Albenza sullo sfondo, che sembra proseguire idealmente nella pittura. Questa forma diventa la base di una narrazione visiva in cui uno stormo di uccelli – composto da decine di specie diverse – si muove dalle vette verso la pianura, mentre altri osservano dal basso, nascosti tra le foglie spesse di un’agave. Nel cuore della pianta affiorano mani che danno forma a gesti che sembrano richiamare da un lato la precisione della pratica scientifica dell’inanellamento, e dall’altro il gesto intimo e quotidiano di raccogliere un fiore. In questo intreccio di suggestioni, le margherite siamesi, fiori doppi con uno stesso stelo, diventano una metafora della ricerca dell’artista: immagini di unione e ambivalenza, che parlano di fragilità e resistenza, ma anche di convivenze apparentemente inconciliabili.
Il colore dominante, un tono mattone caldo e profondo, richiama non solo gli intonaci antichi del borgo e i boschi d’autunno, ma anche la memoria personale dell’artista legata a viaggi notturni attraverso l’Europa negli anni di studio, in cui le luci artificiali sembravano tagliare le montagne come lingue di fuoco. Questa visione si traduce nell’affresco in immagini sospese e poetiche, in cui i confini si dissolvono. Eppure, laddove per gli esseri umani i confini e le zone di transito diventano luoghi di interruzione o di fermo, per gli uccelli migratori sono corridoi continui che collegano geografie diverse, dissolvendo l’idea stessa delle frontiere nazionali e restituendo l’immagine di un paesaggio unito e in movimento.
In una terra storicamente legata alla caccia, La montagna non esiste propone un modo nuovo e non romanticizzato di rapportarsi al mondo animale. Gli uccelli migratori diventano simbolo di un ecosistema fragile ma in costante movimento, di un paesaggio che non separa ma unisce, aprendosi a nuove possibilità di ascolto, cura e coabitazione.
L’affresco è sempre visibile
Coordinate Google Maps
Biblioteca Almenno San Bartolomeo
E-mail: biblioteca@comune.almennosanbartolomeo.bergamo.it
Tel. 035 643484
Asunción Molinos Gordo
Crops Are Not Orphans
Ottobre 2025 – Gennaio 2026
Astino (Bergamo)
Nella Valle della Biodiversità di Astino, in collaborazione con l’Orto Botanico “Lorenzo Rota” di Bergamo, l’artista spagnola Asunción Molinos Gordo svilupperà il workshop artistico-partecipativo Crops are not Orphans che, a partire dall’archivio dei semi custodito dall’Orto, raccoglierà e condividerà le storie ad essi legate, proponendo una riflessione collettiva sul concetto di Seeds Kinship, la capacità dei semi di generare legami affettivi e alimentare un senso di appartenenza.
Il titolo del progetto fa riferimento alla definizione di Orphan Crops, termine – in contrapposizione al concetto di Seeds Kinship – con cui la comunità scientifica indica quei semi ritenuti non significativi per la ricerca o privi di un proprietario. Al contrario, per Molinos Gordo i semi sono profondamente intrecciati alle storie di vita delle persone, e portatori di un valore emotivo e relazionale.
Il laboratorio coinvolgerà dieci partecipanti provenienti dagli orti collettivi della provincia bergamasca, articolandosi in tre giornate di lavoro a ottobre e altre tre a gennaio. Al termine del percorso, l’artista realizzerà una restituzione visiva del lavoro corale, che sarà esposta negli spazi del museo.

